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Audirevi TALKS (About Economy) – “Bitcoin e Environmental Footprint: quanto costa al Pianeta l’Oro Digitale?”

Il progresso nell’informatica, l’evoluzione della rete internet e lo sviluppo della crittografia stanno spingendo ad un radicale cambiamento nell’economia globale. L’applicazione della tecnologia digitale a tutto ciò che ci circonda, non da ultimo al sistema finanziario, ci sta abituando ad una continua e sempre più forte “virtualizzazione” delle cose, perfino di quelle funzioni che, fino a pochi anni, fa avremmo considerato strettamente di politica monetaria, ossia: la creazione di valuta (o per meglio dire di: Criptovaluta).

Il celebre economista Knut Wicksell, nel 1913, sosteneva che la moneta è «un oggetto che è che viene ricevuto in cambio non per conto proprio, (..) non per essere consumato da colui che lo riceve o per essere impiegato nella produzione tecnica, ma per essere scambiato per qualcos’altro». Ciò che caratterizza in modo particolare la moneta, pertanto, è l’accettabilità, e cioè il fatto che gli individui sono disposti a vendere beni e servizi in cambio di essa. Questa proprietà non è connessa all’oggetto usato come mezzo di scambio, ma è il risultato di un implicito accordo che emerge nella società e che si autoalimenta e si rafforza nel tempo. Pertanto, se oltre al sistema dei pagamenti tradizionali, gestito dalle autorità centrali, si creano le condizioni affinché esista un ulteriore sistema grazie al quale dei privati possano subentrare alle sopracitate funzioni sfruttando un nuovo e parallelo binario (che in concreto consiste nella tecnologia blockchain) esso è, in linea teorica, valido ed assolverebbe al suo scopo nella misura in cui garantisce consenso e reciprocità in un gruppo.

Le criptovalute, essendo svincolate dal monopolio di emissione detenuto dalle banche centrali, si basano infatti sul modello peer to peer, cioè su un sistema totalmente decentralizzato che fonda il suo significato unicamente sul consenso dei suoi utenti. Consenso che sembra aver da sempre accompagnato la valuta digitale, in particolare nella sua declinazione più popolare del Bitcoin, che seppur “fondata sul nulla”, oggi permette non solo di acquistare di tutto (ahinoi non solo nel perimetro della legalità) ma addirittura, grazie alla recente quotazione di Coinbase al Nasdaq di essere scambiata da un wallet all’altro su un mercato a ciò dedicato.

Ma cosa succederebbe se ad un certo punto questo sistema di consenso venisse meno? Notizie di questi giorni sul tema della sostenibilità legata alla produzione dei Bitcoin hanno fatto vacillare l’opinione del mercato in merito a tali sistemi di pagamento. Il caso, esploso nel corso delle ultime settimane, è stato innescato dal tweet del fondatore di Tesla Elon Musk, in cui dichiarava, facendo marcia indietro su tema, che la casa automobilistica non avrebbe più accettato i Bitcoin come metodo di pagamento per le automobili. Sono seguiti poi il blocco da parte della Banca Popolare Cinese alle attività di estrazione e trading delle criptovalute e Hsbc che ha proibito ai propri clienti di svolgere trading azionario sulla piattaforma online della banca acquistando azioni in MicroStrategy (nota per i forti investimenti in Bitcoin), dichiarando di non permettere ai clienti l’acquisto o lo scambio di prodotti legati a valute digitali.

Per cui, oltre all’eccessiva volatilità registrata dal mercato a seguito di queste notizie, che ha confermato i dubbi di molti sull’appropriatezza delle criptovalute come riserva di valore – attributo secondario ma comunque necessario di una moneta – viene rimarcata una grave carenza nel sistema attualmente in essere, in special modo dei Bitcoin, la sostenibilità ambientale.

Per inquadrare meglio il tema, è fondamentale partire dal fatto che, esattamente come l’oro, anche l’offerta di Bitcoin non è infinita. Mediante il lavoro di decine di migliaia di computer e server impegnati tutto il giorno in calcoli complicati (che necessitano anche di impianti di raffreddamento per non surriscaldarsi) sono creati i Bitcoin. Il numero di Bitcoin è limitato ed è pari a 21 milioni, alla fine del 2020 si è arrivati a 19 milioni di Bitcoin “minati”. L’effetto scarsità del numero di monete implica che la produzione delle stesse, da parte di coloro che in gergo sono chiamati miners, richiede e richiederà crescenti quantità di energia nella competizione per risolvere complessi problemi crittografici spingendo inevitabilmente al rialzo il consumo energetico. Peraltro, a quanto già detto va aggiunto che la maggior parte della produzione avviene o avveniva in Cina (secondo alcune stime stiamo parlando del 70% della potenza di elaborazione totale della rete Bitcoin), Paese con un modello di sviluppo economico fortemente legato al carbone.

Studi sull’impatto che questo sistema ha sull’ambiente arrivano dall’Università di Cambridge e dall’International Energy Agency. È stato stimato che nel 2019 le attività di mining in tutto il mondo attingono a fonti di energia a un ritmo di circa 120 terawattora all’anno, più o meno quanto una nazione di medie dimensioni. In breve, le emissioni di anidride carbonica annue provocate dall’estrazione dei Bitcoin sono tra le 22 e le 22,9 tonnellate, livelli equivalenti a quelli prodotti dalla Giordania o dallo Sri Lanka. Un recente studio pubblicato su Nature Communication stima che senza regolamentazioni il mining di Bitcoin in Cina avrà consumi energetici pari a quelli dell’Italia nel 2024.

A questo deve necessariamente aggiungersi il costo ambientale di dismissione della componente hardware utilizzata nel mining, che viene sostituita frequentemente con modelli più nuovi ed efficienti. Le unità obsolete creano ogni anno circa 11.500 tonnellate di rifiuti elettronici pericolosi, molti dei quali vengono scaricati nelle città del sud del mondo.

Energy Consumption by Country (Annualized TWh)

Fonte: BitcoinEnergyConsumption.com, March 2021

Una soluzione per orientare il sistema alla sostenibilità potrebbe essere quella di utilizzare esclusivamente energia proveniente da fonti rinnovabili. O ancora, se oltre al Bitcoin, che si basa su un metodo computazionale chiamato “proof of work”, che mette i minatori in reciproca competizione spingendoli alla massima potenza di calcolo per convalidare lo stesso blocco di transazioni, si privilegiassero altre tipologie di criptovalute in cui ciò non avviene.

Certamente, in un momento come quello attuale, in cui la decarbonizzazione dell’economia, l’ESG (Environmental, Social, Governance) e l’obiettivo zero emissioni rappresentano temi centrali nei programmi europei e mondiali, ci si chiede a che prezzo e soprattutto a quale fine è giusto consentire un tale utilizzo di risorse a discapito del pianeta, vanificando gli sforzi e i progressi richiesti a cittadini ed imprese. Per quanto ancora, quindi, si riuscirà a preservare il sistema di consenso degli utenti sul quale l’esistenza stessa delle criptovalute trova fondamento?

 

English Version

 

Dayana Coscia